Intervista a Don Fabrizio (vita, vocazione e storia sacerdotale)

Agazzano, don Bonelli prete da 40 anni

 

Intervista rilasciata a Paolo Prazzoli per il Settimanale Diocesano “Il Nuovo Giornale” in occasione del 40° di sacerdozio:


Ordinato nel 1983, don Fabrizio, dopo un periodo vissuto come missionario in Indonesia, è rientrato a Piacenza e dal 2013 è alla guida della parrocchia della val Luretta

La festa della Beata Vergine del Pilastrello si tiene, per tradizione, la seconda domenica di settembre, quella più vicina alla memoria del Nome di Maria. Quest’anno, i festeggiamenti abbracciano anche il 40° anniversario di sacerdozio di don Fabrizio Bonelli, parroco di Agazzano e delle parrocchie della val Luretta.

La vocazione francescana

“Quarant’anni sono molti, se uno ci pensa: praticamente una vita”. Quella di don Fabrizio Bonelli è un percorso scandito più o meno per decenni, che ha attraversato territori diversi e negli ultimi dieci anni è diventato un ritorno a casa. Nel prossimo autunno, don Bonelli festeggerà i quarant’anni dalla sua ordinazione sacerdotale.

— Come è nata la sua vocazione?

La mia vocazione è originariamente francescana: abitavo a Rezzanello e ho vissuto presso i frati conventuali di Salsomaggiore, che avevano un Seminario minore. Quando ero ancora ragazzino sono andato a Milano dove viveva un mio fratello maggiore, che è poi diventato frate anche lui ed è entrato in convento nel 1961, quattro anni prima di me. A Milano ho vissuto il percorso delle scuole medie, poi sono andato a Ferrara, per il liceo. Mio fratello, padre Giuseppe Bonelli, è morto poi giovane, a 34 anni, nel 1985 in un incidente stradale, quando io ero appena partito per una missione. All’epoca, lui era il vice-responsabile degli aspiranti alle vocazioni adulte ad Assisi: come testimoniano molti frati che l’hanno conosciuto, padre Pino era una figura grande e bella a livello spirituale e di vita francescana, un piccolo santo.

La mia vocazione quindi è nata in un sostrato religioso: eravamo una famiglia numerosa di 15 fratelli, mia mamma aveva due sorelle suore e una mia sorella è entrata nelle suore vincenziane: era suor Luisa, mancata tre anni fa. L’humus era quello di una sensibilità religiosa, fertile alla fede. Ho preso la decisione definitiva nell’ultimo anno di liceo: nel 1976 mi sono trasferito ad Assisi e il 12 novembre 1983 sono diventato sacerdote. Dopo un anno e mezzo sono partito per una missione in Indonesia, dove sono rimasto fino al 1995. Poi sono tornato in Italia e dopo 7 anni di vita pastorale nella parrocchia di Faenza, ho chiesto di diventare cappellano ospedaliero a Piacenza: il 1° settembre 2004 mi sono trasferito qui. Infine, nel dicembre 2013 sono stato incardinato come parroco ad Agazzano e nelle parrocchie vicine.

— Cosa resta dell’esperienza missionaria in Indonesia?

È stata un’esperienza straordinaria, che si capisce solo vivendola di persona: io ero giovane, agli inizi, e quarant’anni fa quello era un Paese molto diverso da com’è oggi. Nei villaggi trovavo una vita molto simile alla mia infanzia: la povertà, la semplicità e il valore dell’accoglienza. Mi sono adattato bene a questa vita pastorale apparentemente di sacrificio ma soprattutto di avventura. Questo tempo mi ha permesso di constatare anche fisicamente la presenza e l’aiuto del Signore nell’affrontare i disagi e le situazioni più difficili.

Gli anni da cappellano in ospedale

 

— C’è un momento di questi quarant’anni che le sta particolarmente a cuore?

La mia esperienza come cappellano all’ospedale di Piacenza, vissuta insieme a don Carlo Tagliaferri, don Giulio Cella e don Virgilio Zuffada, è stata davvero notevole, sia per la vita comune tra noi sacerdoti, sia per la condivisione con i pazienti. Vivevamo insieme come in un convento: grazie a quel periodo ho capito che la vita dei sacerdoti oggi dovrebbe essere veramente una vita di comunità, formata da almeno due o tre persone; mi sembra difficile e controproducente per un sacerdote vivere da solo. Pregare, discutere e vivere insieme in ospedale, anche con la presenza dei diaconi, era un’autentica ricchezza.

L’essere al servizio dei malati non mi ha solo fatto incontrare vari tipi di sofferenza (fisica e spirituale) ma mi ha dato anche la possibilità di conoscere i familiari dei pazienti, quella galassia di amici e parenti che di solito non frequentano la chiesa: ho ancora in mente alcune amicizie straordinarie nate lì e poi continuate all’esterno. Entrare nella vita di pazienti che potevano trovare, se non una risposta, almeno un sollievo, non tanto in me ma in ciò che io rappresento, è stato molto bello, a volte difficile e anche duro, ma – insieme alla missione – è stata l’esperienza più intensa della mia vita.

Giunto ai quarant’anni di sacerdozio, però, la domanda che ora mi pongo è: ho fatto tutto quello che potevo fare? Mi trovo a pensare molto, ma non mi sono mai pentito di tutte queste scelte: forse avrei potuto fare meglio certe cose, affrontare meglio alcune situazioni. Ma al di là di tutto, è una vita interessante: mi è stata data la possibilità di vivere una vita piena, di vera donazione, al servizio degli altri.

 

Paolo Prazzoli